L’organizzazione della giustizia

Su richiesta di molti di Voi, un approfondimento sul tema dell’organizzazione della giustizia.

II testo, oltre che leggibile di seguito, è scaricabile a questo link e nella pagina “Pubblicazioni”.

L’ORGANIZZAZIONE DELLA GIUSTIZIA

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È di precipua importanza, per quanti intendono andare al nucleo delle questioni pratiche, affondare nel cuore delle stesse, comprendendone l’esatto fondamento.

L’organizzazione della giustizia è una delle questioni fondamentali da affrontare e, in particolar modo, la corretta distribuzione del suo peso.

La giustizia ha un peso di grave consistenza e, come in un’opera architettonica, essa necessita di bilanciamento.

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Il cardine giuridico dell’organizzazione della giustizia occidentale si rinviene nel Libro di Shemot, capitolo 18, versetti 12 e ss, alla cui lettura si rimanda preliminarmente.

v. 12 – La giustizia è nettamente divisa dal corpo sacerdotale. Ed invero, nell’antichità era una funzione esercitata dal Re, mentre le funzioni religiose erano detenute dai sacerdoti. “Aronne, e tutti gli anziani d’Israel, recaronsi a cibarsi col suocero di Mosè davanti a Dio”, vi è scritto.

Tuttavia, è il corpo sacerdotale che, come vedremo, dà il giusto consiglio per la corretta organizzazione della giustizia.

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vv. 13-16 – Il popolo porta da mane a sera i contenziosi innanzi a Moshé, il quale li risolve e illustra gli Statuti di Dio e le sue leggi (v.16).

La parola “statuti” (torotav) compare solo tre volte in tutta la Bibbia. Oltre che qui, nel Libro di Ezechiele per due volte, in riferimento alla profezia del terzo Tempio data durante l’esilio (cap. 43, v. 11; cap. 44, v. 5).

Nel Libro di Shemot l’utilizzo di questo vocabolo è un riferimento. Gli Statuti sono anche il terzo Tempio, l’organizzazione della giustizia è il suo custode.

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vv. 17-19 Moshé, dalla fatica, si sta consumando, la giustizia ha un peso gravoso e non può essere esercitata in un’unica persona.

così Itrò, suocero di Moshé, sacerdote d’Israele con un importante passato pagano, gli dà il giusto consiglio.

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v. 20 – Il compito che deve avere Moshé è duplice, in sequenza: spiegare gli Statuti come un professore; spiegare le ricadute pratiche delle norme (questo è il passaggio fondamentale, leggere un codice sono capaci tutti, ma come si applica nella vita reale?): “Tu gli avvertirai degli statuti e delle leggi, e farai loro conoscere la via che devono tenere, e le azioni che hanno a fare”.

Il modo corretto di agire, infatti, è: a) imparare la teoria (turim); b) capirne l’applicazione (torot); c) mettere in pratica (maaset).

Gli Statuti non impongono il bene o il male, impongono solo di essere seguiti, senza valutazione di sorta. Una volta manifestata la legge è nota a tutti, pertanto si dice che non ammette ignoranza. Sono input da seguire alla lettera, anche si comprende il motivo.

Per questa ragione non ha senso lamentarsi del giudicante. Una volta conosciuta la legge è responsabilità del singolo percorrere la “via” oppure no, il giudicante si limita ad applicare le norme, è senza responsabilità.

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v. 21 – Per l’applicazione degli Statuti è bene individuare quattro categorie di persone:

a) le persone di valore, cioè i benestanti, perché non hanno bisogno di riguardi e di adulazione;

b) persone credenti;

c) uomini di verità, ovvero i custodi della sicurezza, intesa come coloro che ci danno certezze e alle cui parole possiamo aggrapparci;

d) nemici della corruzione, coloro che detestano le loro ricchezze quando si tratta di un processo. Un detto talmudico afferma: “Un giudice al quale si deve fare un processo per fargli dare il denaro che deve non è adatto a fare il giudice”.

In senso generale, un detto talmudico esprime che il giudicante deve immaginare sotto di sé un burrone nel quale, se giudica male, ci cadrà dentro.

Un salmo recita che il giudice siede nella congrega di D-o, ove il termine “giudice” compare nella forma di Elohim, non sempre Elohim sta per D-o, ma spesso sta per giudice.

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v. 21 – Il numero dei giudici. Il popolo d’Israele, durante la traversata del deserto, era composto da 600.000 persone. Ad esse vanno poste alla testa dei giudici in tali proporzioni:

a)  capi di migliaia (600 capi, 1 capo ogni 1.000 persone);

b)  capi di centinaia (6.000 capi, 1 capo ogni 100 persone);

c)  capi di cinquantine (12.000 capi, 1 capo ogni 50 persone);

d)  capi di decine (60.000 capi, 1 capo ogni 10 persone).

In totale 78.600 giudici. Tanti sono necessari per reggere il peso della giustizia, prima esercitato dal solo Moshé.

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Il criterio di ripartizione della giurisdizione tra questi giudici non è per territorio né per materia, bensì per importanza della questione giuridica.

Un caso di poco valore potrebbe sottendere una questione giuridica di enorme difficoltà.

A Moshé vengono rimesse le questioni più grandi.

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Nella Torah non esistevano gli avvocati. Gli avvocati sono un’introduzione cristiana. Questo perché nell’ebraismo sussistono regole fisse e precise, che vanno semplicemente applicate, a prescindere dall’intenzione dell’agente, mentre nel cristianesimo l’unica norma precettiva è “Ama e fa ciò che vuoi”.

Detta regola impone una valutazione di valore innanzi ad ogni azione. Non è una regola semplicemente “da seguire”, ma necessita di essere interpretata di volta in volta nell’applicazione pratica. Cosa significa amare in un dato contesto?

Questo a priori.

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A posteriori, tale regola richiede un’indagine sulla reale volontà dell’agente prima dell’azione compiuta. Il cristianesimo inserisce l’elemento piscologico.

Scandagliare il perché è un giudizio più profondo rispetto alla semplice verifica della perfetta adesione agli Statuti ebraici.

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Questa è la ragione per cui il cristianesimo introduce la funzione dell’avvocato. L’avvocato è colui che deve valorizzare il buono che c’è nel soggetto, ricercando quell’ “ama” nelle intenzioni retrostanti all’azione.

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Moshé, a differenza di Yesua, dà gli Statuti e ne illustra anche le applicazioni pratiche. Non si può sbagliare, l’errore non è ammesso. Nella Torah tutto è spiegato e chiaro, non ci sono zone d’ombra, questioni d’inconscio, di psiche e di motivazioni che spingono a commettere un’azione, tutto ciò è eclissato.

Il praticante ebraico ha ascoltato la legge e la sua applicazione pratica, adesso deve soltanto eseguire l’azione consequenziale.

Yesua, invece, esprime una norma generalista, che si può riempire di vari contenuti.

Così nel cristianesimo c’è l’arrendevolezza all’amore ed ogni azione va valutata.

Qui s’inserisce il ruolo dell’avvocato che ha una funzione dolce, difensiva.

Ed infatti, l’avvocato cristiano per eccellenza è la Madonna, la quale, essendo donne e madre della cristianità, ha sempre implicitamente uno sguardo benevolo sui propri figli.

Il cristianesimo introduce allora anche l’appello, alla ricerca di un miglior giudizio, fino all’appello finale a D-o, il cui giudizio si compie dopo la morte, forse perché egli esprime una sentenza dell’operato di vita complessivo. È l’unico giudizio di cui il cristiano si fida.

Il cristiano non ritiene mai possibile una giusta sentenza terrena, perché reputa sia sempre necessario valutare meglio.

In questo senso, le pene cristiane devono essere rieducative e non meramente afflittive.

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Ritengo di aver detto abbastanza in tema di giustizia.

Marco Destro

Maggio 2023