Perché il lavoro è diventato una religione?

Pubblichiamo questo articolo di di Andrea Colamedici e Maura Gancitano molto interessante dal sito del giornale L’indiscreto: https://www.indiscreto.org/perche-il-lavoro-e-diventato-una-religione/

A Capodanno abbiamo portato i nostri figli nel centro di Roma per passare qualche ora da turisti nella città in cui viviamo. Abbiamo raggiunto la Bocca della Verità con un autobus, ma al ritorno abbiamo deciso di prendere un taxi. Il tassista, infastidito dall’orda dei turisti, si è detto indignato per il fatto che tante persone fossero in vacanza da prima di Natale e lo sarebbero state ancora per una settimana, grazie a una serie di ponti. Lui, al contrario, aveva fatto pausa solo per un giorno, ed era così che era giusto fare. Non stava vedendo il figlio, in vacanza da scuola, per lavorare, ma era giusto così. Erano le persone in ferie a sbagliare, anche perché cosa vuoi mai fare in così tanti giorni di stop? 

Il discorso del tassista è frutto di una cultura che sembra quella giusta, fatta di sudore, impegno e lavoro, anche controvoglia. La nostra società, infatti, è fondata sul lavoro, perché il lavoro sembra avere significato in sé, non importa quale sia e se abbia un fine. Si possono professare religioni diverse, ci si può dire atei o agnostici, ma la religione del lavoro è diventata progressivamente indubitabile e universalmente condivisa. 

Chi lavora tanto, chi si sacrifica – cioè sacrifica il proprio tempo, i propri interessi, le relazioni sociali – per il lavoro è una persona per cui scattano applausi, commozione e grande compassione, mentre chi si risparmia, passa il tempo a bighellonare, non usa le proprie capacità sta compiendo un vero peccato sociale. Rifiutare un lavoro, anche se brutto o disgustoso, significa essere un parassita o un privilegiato, che evidentemente finge di aver bisogno di lavorare; allo stesso modo, chi chiede bonus e sussidi statali è un peso per la società, fa la bella vita grazie alla fatica degli altri, di chi paga le tasse dopo aver lavorato. Le persone che Ronald Reagan definiva welfare queens, che sopravvivono come parassiti sul corpo sano della società. 

I discorsi della politica, in effetti, si rivolgono sempre a chi lavora duro, fanno riferimento alle generazioni passate che con il duro lavoro hanno reso possibile la vita di chi oggi è giovane, e che per definizione non ha voglia di impegnarsi e lavorare allo stesso modo. In un confronto televisivo, qualunque politico mostrerà apprezzamento per chi lavora e disprezzo per chi non lo fa. Se mettesse in dubbio questa idea, sarebbe considerato semplicemente folle. 

Il lavoro al centro della vita 

Ma quand’è che abbiamo iniziato a dare tutta questa importanza all’idea di lavoro? A convincerci che non solo fosse doveroso, ma fosse giusto lavorare? 

Secondo Hannah Arendt, in un certo momento della storia moderna la considerazione del lavoro è cambiata in modo improvviso e spettacolare, diventando la suprema e più stimata tra le attività umane. Fino a quel momento, al contrario, il lavoro era stato considerato tendenzialmente un’occupazione bassa a cui riservare disprezzo. Secondo la filosofa tedesca, l’ascesa è cominciata nel Seicento quando Locke ha teorizzato che il lavoro fosse la fonte di ogni proprietà, è proseguita quando Adam Smith ha asserito che il lavoro è fonte di ogni ricchezza e ha trovato il suo culmine quando Karl Marx ha elaborato un sistema del lavoro.

Questa importanza data al lavoro ha rappresentato, secondo l’autrice, un grande pericolo, perché ha sottratto spazio, energie e tempo all’azione pubblica, a tutto quello che gli esseri umani possono creare insieme al di fuori dei processi di produzione. Facilitare la vita in una società di consumatori o lavoratori può forse emancipare le persone ma non le rende più libere, e non fa che fornire uno spazio spropositato alla futilità. In sostanza, nel 1958 Arendt intuiva già che una società abbagliata dall’abbondanza, dalla fecondità e dalla produzione sfrenata, convinta della possibilità di andare verso un progresso senza fine, avrebbe reso difficile riconoscere la caducità delle cose e dedicare tempo a qualcosa in grado di trascendere i meri rapporti di produzione.

La preoccupazione di Arendt riguardava soprattutto la sottrazione di tempo, pensiero ed energie nei confronti dello spazio e dell’azione pubblici. Se esiste solo il lavoro, se il lavoro è la strada per accumulare benessere e benefit nel proprio privato, questo rischia di non lasciare spazio a tutto ciò che dà senso alla coesistenza umana. L’immagine cardine dell’opera di Arendt è l’idea che vivere insieme nel mondo sia come trovarsi a un tavolo attorno al quale le persone sono sedute, che allo stesso tempo le unisce e le separa. La sfera pubblica riunisce e impedisce di cadersi addosso a vicenda, ma nella società di massa Arendt percepiva che qualcosa stava cambiando e stava rendendo difficile sopportare la convivenza: il fatto cioè che il mondo che sta tra le persone – il tavolo – aveva perso il potere di riunire, di mettere in relazione e di separare. È innegabile che la sensazione, oggi sempre più presente, è di vivere in un mondo caotico, di essere circondati da persone con cui non si condividono più le premesse fondamentali del vivere comune, che parlano una lingua incomprensibile e sono interessate esclusivamente a se stesse e al proprio spazio privato, alle proprie credenze, alla conferma delle proprie idee. Del resto, quello che si fa ogni giorno sui social network quando si inizia a commentare qualunque fatto di cronaca, di cultura pop o di questioni sociali, linguistiche, culturali, senza la possibilità di trovare alcun terreno comune, è proprio cadersi addosso a vicenda: quasi sempre si rovesciano sugli altri le proprie opinioni, i bias cognitivi, i set di lavori, la morale, le esperienze individuali, senza riuscire a rispettare la molteplicità di vissuti e punti di vista.


Se però è facile vedere tutto questo negli altri, è più difficile vederlo in se stessi, ed è controintuitivo collegare questa condizione allo spazio che il lavoro e il consumo hanno occupato nelle nostre vite. Per questo abbiamo coniato l’espressione società della performance, facendo riferimento proprio a questa connessione: la spinta a mostrarci sempre attivi e produttivi, l’ansia da prestazione, unite alla paura di essere dimenticati, alla difficoltà di coltivare spazi vuoti, dilatare il tempo e mettere in pausa il rumore costante, alimentano l’insoddisfazione e la mancanza di senso della vita creando un circolo vizioso. La continua produttività e il continuo consumo non danno senso, quindi, al massimo possono offrire un po’ di soddisfazione istantanea e volatile, eppure ci sembrano l’unica azione possibile da compiere: fai un acquisto online e per un breve momento ti sembra di essere felice, ma poi ritorna quel senso di insoddisfazione. Che fare, dunque? Ovvio: acquistare qualche altra cosa per provare di nuovo un pizzico di contentezza momentanea. Accade con ogni prodotto culturale, con il sesso, con la ricerca della visibilità. Ma è davvero così ovvio? E se tutto questo fosse riconducibile al momento in cui è nata l’idea moderna di lavoro? 

La teologia del lavoro 

Nel 1905, Max Weber pubblicò L’etica protestante e lo spirito del capitalismo dopo un lungo esaurimento nervoso che gli aveva impedito di insegnare e lavorare. La scrittura gli diede la possibilità di interrogarsi sulle ragioni di quello che oggi chiameremmo burnout, e non è un caso che la domanda a cui tentò di rispondere riguardasse l’origine e i modi grazie a cui il capitalismo era nato e aveva proliferato. 

Se è vero che gli esseri umani avevano già manifestato avidità nel corso della storia e che da sempre i mercati avevano avuto un ruolo preponderante nella civiltà umana, secondo Weber nell’Europa del Nord in epoca moderna si era creata una congiuntura molto particolare. I calvinisti inglesi – detti puritani dai loro oppositori – erano una classe di artigiani e contadini che stava accumulando capitale e che offriva lavoro. In più, grazie alle iniziative di Giovanni Calvino in Svizzera, che poi si diffusero in altri paesi (e da lì sarebbero stati esportati negli Stati Uniti), le feste popolari, il gioco d’azzardo, gli alcolici e ogni tipo di sovvertimento dell’ordine sociale furono messi al bando, considerati immorali e indecorosi e, quindi, fuorilegge.

I calvinisti spingevano le persone a adeguarsi a una disciplina severa, e occorreva dimostrare di far parte di una famiglia osservante e guidata degnamente da un capofamiglia. La nuova classe ricca intendeva addomesticare e educare la classe più povera attraverso nuovi discorsi sui costumi e l’esempio personale. Il lavoro, in particolare, era il mezzo attraverso cui si poteva imparare la disciplina e diventare persone perbene, senza eccessi e grilli per la testa. Attraverso il lavoro si poteva dimostrare di saper stare al mondo, e quindi essere buoni cristiani. La ricchezza prodotta sarebbe stata un segno del favore di Dio, che avrebbe apprezzato gli sforzi, il sacrificio e l’osservanza delle regole. 

Nella prima metà dell’Ottocento il filosofo scozzese di matrice calvinista Thomas Carlyle elaborò un vero e proprio Vangelo del lavoro, sostenendo che esso non fosse legato al soddisfacimento dei bisogni materiali, ma costituisse l’essenza stessa della vita. Si trattava della corrente del produzionismo, che si concentrava sulla capacità di produrre, di fare, di creare. Ogni lavoro, secondo Carlyle, era nobile in sé, e allo stesso modo ogni dignità era dolorosa. Una vita di benessere era per pochi, la maggioranza doveva sviluppare il culto del dolore, saper portare la corona di spine, lavorare con sacrificio e ricordare sempre che da lì sarebbe arrivata la salvezza. 

Se lo sguardo di Arendt ha illuminato il piano politico e sociale, quello di Weber ha quindi mostrato la connessione tra lo spirito del capitalismo e una certa etica religiosa. Senza la promessa di senso e salvezza, infatti, le idee puramente economiche non avrebbero avuto la forza di spingere le persone a lavorare per mostrare di essere socialmente valide, e non avrebbe potuto prodursi una sovrapposizione integrale fra spiritualità e lavoro. 

La ragione per cui molte idee economiche sono riuscite ad attecchire così tanto nella società e sono diventate dogmi, partendo dall’Europa del Nord e diffondendosi poi soprattutto negli Stati Uniti, potrebbe dunque essere spiegata – almeno in parte – dal fatto che derivino a loro volta da idee religiose. L’idea di soffrire oggi ma per una salvezza e un benessere futuri, l’idea di comportarsi secondo le regole, di doversi meritare il regno dei cieli attraverso il lavoro derivano dal protestantesimo e dal calvinismo, che abbandonarono la celebrazione della povertà della chiesa cattolica per abbracciare una concezione diversa dello stare al mondo, maggiormente legata all’ambito materiale. 

Anche l’importanza della famiglia, come nucleo costituito da madre e padre, con precise funzioni e legata in modo fortissimo al suo interno, in cui i figli rappresentano il frutto del lavoro dei genitori, è un’idea più moderna di quanto pensiamo, e legata in particolare ai rapporti economici. Senza i ruoli di genere, il lavoro di cura delle donne e la produzione della prole, il sistema economico di mercato sarebbe collassato. Lo sostiene anche la studiosa Maya De Leo: molti degli stereotipi di cui oggi stiamo cercando di liberarci sono stati codificati a partire dal Settecento. Sono infatti legati alla necessità di aumentare la natalità – quindi la forza lavoro – e di accompagnare i processi di urbanizzazione e la produzione industriale.

Il valore del lavoro 

Lo stesso Adam Smith, d’altra parte, prima di essere l’ideatore della mano invisibile e creatore di alcuni tra i testi che aprirono la riflessione su economia e ricchezza delle nazioni, era un professore di filosofia morale, tanto che il suo primo bestseller fu Teoria dei sentimenti morali

Il lavoro, in effetti, era per Smith, come per un altro economista, David Ricardo, un valore in sé proprio perché in grado di generare ricchezza. Sia i nuovi industriali sia i proletari socialisti non mettevano in ogni caso in dubbio il valore-lavoro, al di là delle idee politicoeconomiche differenti: nel primo caso per distinguersi dai pigri proprietari terrieri, nel secondo per rivendicare nei confronti degli stessi industriali il fatto che la ricchezza capitalista provenisse dal proprio lavoro. 

In gioco c’era la superiorità morale e politica: chi lavorava di più aveva più valore di chi passava il tempo a poltrire e godere del lavoro degli altri.

Tanto che nel suo primo discorso annuale al Congresso, nel 1861, Abraham Lincoln disse che il lavoro era indipendente dalla produzione del capitale e che precedeva il capitale stesso: non bisognava guardare al frutto del lavoro, ma al valore del lavoro in sé. Un valore che non era legato al piacere, ma alla salvezza futura: secondo l’economista Alfred Marshall, il lavoro era rappresentato da ogni sforzo fisico e mentale, sostenuto in vista di qualche bene che non fosse il piacere derivante dal lavoro.

Solo qualche decennio più tardi, intorno al 1890, iniziò a diffondersi quello che Dimitra Doukas e Paul Durrenberger hanno chiamato Vangelo della ricchezza che, al contrario del Vangelo del lavoro, poneva il profitto al di sopra della fatica: si trattava della controffensiva culturale di banchieri, borghesi e industriali che intendevano contrastare l’idea che guadagnare senza faticare come un proletario significasse essere moralmente inferiori. Questa coalizione si impegnò per diffondere l’idea – nelle scuole, nelle università e in ogni organizzazione della società civile – che le imprese avessero risolto dei problemi fondamentali della società e che quindi andassero ringraziate ed elogiate pubblicamente.

Una narrazione che sarebbe proseguita per tutto il Novecento, arrivando fino a noi, e da cui sarebbe nata la corrente del neoliberismo. 

Il passaggio, sottolineato da molti antropologi, fu quello che traghettò la società del tempo dal produzionismo al consumismo: una persona ha valore sociale non se sa fare molte cose, ma se è in grado di acquistarle.

Tempo e lavoro 

Ma com’è nata l’idea moderna di lavoro, secondo cui sembra normale vendere il proprio tempo a un datore di lavoro (come dipendenti), oppure a vari clienti (come liberi professionisti) per servizi e consulenze? Perché un datore di lavoro si indigna se i propri dipendenti cincischiano anziché lavorare durante l’orario prestabilito, anche se hanno finito tutto quello che avevano da fare? 

Negli anni Sessanta, Edward Thompson cercò di capire come, quando e perché la cultura preindustriale fosse diventata capitalistica. Non credeva che la cultura potesse spiegare ogni processo di trasformazione, ma era comunque convinto che ci fossero anche delle ragioni culturali, e che attraverso quei cambiamenti fosse stato possibile disciplinare le persone. In particolare, pensava che la cultura del capitalismo industriale fosse innanzitutto una cultura del tempo

Se Max Weber aveva messo in relazione la mente calvinista e quella capitalista e aveva preso ad esempio gli aforismi di Benjamin Franklin, al centro dei quali si trovava l’idea che il tempo fosse denaro, in Tempo e disciplina del lavoro (1967) Thompson cercò di assumere il punto di vista del lavoratore più che ricostruire la storia delle idee. 

Negli ultimi due secoli le persone sono state disciplinate e, come sosteneva Michel Foucault in Sorvegliare e punire, il tempo è una dimensione strategica che ha formato e modellato dei corpi docili, secondo un modello simile a quello delle società monastiche o delle caserme militari. Il disciplinamento del tempo è essenziale per avere il controllo delle logiche di produzione e aumentarne l’efficienza. Era vero nell’epoca industriale ed è vero anche adesso, con lavori precari e contratti flessibili. È il tempo del lavoro a doversi adattare alle esigenze del mercato, e non il contrario. Oggi il tempo della vita è determinato da quello del lavoro, così come il modo in cui stiamo dipende da quanto e come lavoriamo. 

Non è un caso che molti libri e tecniche sulla gestione del tempo – in ambito personale o lavorativo – vengano scritti da persone con un background militare, come nel caso del metodo Scrum di Jeff Sutherland, il cui bestseller è proprio Fare il doppio in metà tempo (2014). Così, da Come vivere 24 ore al giorno (1910) di Arnold Bennett a Il club delle 5 del mattino (2018) di Robin Sharma, siamo stati sempre più spinti a riflettere su come impieghiamo il nostro tempo e su quanto riusciamo a capitalizzarlo, ottimizzarlo, controllarlo. Sprecarlo è un vero peccato (da notare il tono religioso del termine), per questo bisogna usarlo il più possibile. 

Intendiamoci: libri e tecniche possono essere utili e persino aiutare a contrastare l’ansia per molte persone; la difficoltà sta proprio nel riconoscere la complessità in cui ci troviamo, cioè il fatto che è possibile alleviare il proprio disagio attraverso strumenti nati per avere il controllo di qualcosa di incontrollabile. E che l’umanità non ha mai avuto intenzione di controllare prima della rivoluzione industriale.

L’orologio e la percezione del tempo 

Thompson sostiene che il passaggio a una società industriale comportò una rigida ristrutturazione delle abitudini di lavoro e un cambiamento sostanziale nella misurazione del tempo. 

Si dice che siano stati i mercanti già nel Trecento a diffondere la visione del tempo lineare come di qualcosa di cui fare buon uso, finanziando la costruzione di torri dell’orologio nelle città europee e tenendo dei teschi umani sulle proprie scrivanie per ricordarsi della morte e quindi imparare a non sprecare ore preziose. 

Con la fine del Cinquecento la maggior parte delle parrocchie possedeva un orologio che nel campanile scandiva le ore. Se è vero che la mattina, nei distretti tessili di alcune province inglesi, per svegliare le persone veniva ancora usato il corno o l’agricoltore andava personalmente a chiamare i braccianti, tra la fine del Seicento e l’inizio dell’Ottocento in Inghilterra circolava già una gran quantità di orologi, che erano diventati sempre più facili da trasportare e su cui venne addirittura posta una tassa. L’orologio era un segno di benessere economico: potevi acquistarlo se eri riuscito a migliorare le tue condizioni, oppure era un riconoscimento che il datore di lavoro faceva al dipendente dopo anni di disciplina. 

L’orologio era un simbolo, a fronte di una cultura secolare che in precedenza non aveva celebrato affatto la disciplina, ma il gusto di disperdere il tempo. Quando i lavoratori ricevevano una paga alta, spesso infatti non si presentavano a lavorare il giorno dopo, ma andavano in birreria o a giocare ai birilli, e tornavano a lavorare una volta finiti i soldi. Si trattava di un’abitudine derivata dalle consuetudini di lavoro nei villaggi e nei luoghi di campagna, dove il sabato pomeriggio si interrompeva l’aratura e gli abitanti si dedicavano ai divertimenti. Di conseguenza, nei giorni successivi non si avevano le energie per lavorare. Del resto, il lavoro agricolo era faticoso ma non costante nel corso dell’anno, dunque a giornate di grande fatica ne corrispondevano molte di riposo o comunque più leggere. Secondo l’antropologo David Graeber, si lavorava dall’alba al tramonto per venti o trenta giorni all’anno non consecutivi; il lavoro normale era di qualche ora al giorno, e non si lavorava durante le frequenti festività. E, soprattutto, i lavoratori venivano raramente sorvegliati, al contrario di quanto avveniva in fabbrica. Secondo Thompson a variare in epoca preindustriale era anche la velocità con cui si lavorava durante la settimana: il lunedì e il martedì lo si faceva lentamente, mentre il giovedì e il venerdì si accelerava perché la settimana stava per finire. Il tempo del lavoro non era omogeneo, ossessivo, ripetitivo. 

Possiamo pensare che questa condizione fosse propria soltanto del feudalesimo o del Medioevo – sempre Arendt in Vita activa – ma accadde in realtà fino a tempi piuttosto recenti. Un lavoro continuo, ripetitivo, sorvegliato e sempre stancante come quello della fabbrica era considerato incomprensibile, disumano e inaccettabile. Henri Lefebvre a questo proposito ha distinto il tempo ciclico, quello delle occupazioni stagionali dell’agricoltura, e il tempo lineare, della vita urbana e industriale, mentre Lucien Febvre ha proposto la distinzione tra tempo vissuto tempo misura.

Questo tipo di ritmo lavorativo è rimasto forse solo nei lavori artistici o autonomi, ma in realtà in questi anni – specie a causa della vita digitale – si sta perdendo anche lì. Oggi un lavoratore autonomo deve dedicarsi alla promozione e alla comunicazione dei propri prodotti o servizi online, deve procacciarsi nuovi clienti e usare le vetrine digitali, e lo stesso deve fare un piccolo agricoltore, un musicista o uno scrittore. Il tempo di pausa dell’attività specifica, che prima era un tempo vuoto, adesso viene riempito dalla paura di essere dimenticati o di non raggiungere il giusto pubblico. Se un musicista un tempo alternava, per esempio, i momenti di esposizione esterna (lancio del nuovo album, interviste, tour di concerti) con tempi vuoti e nascosti di silenzio, scoperta e creazione, oggi deve sempre farsi vedere per non rischiare di essere sostituito da altri artisti; deve mostrarci dove va in vacanza, deve presenziare agli eventi mondani, deve far parlare di sé, anche quando non vorrebbe.